Per quanto concerne la possibilità di registrare una conversazione – telefonica o non – con terze persone e, conseguentemente, la successiva utilizzabilità del materiale raccolto mediante tale registrazione, la più importante delle distinzioni va effettuata tra il caso in cui la persona che effettui tale registrazione sia parte attiva del colloquio intercettato oppure no.
Nel primo caso è lecita la captazione segreta delle relative conversazioni: conseguentemente, se ad esempio Tizio registra un proprio colloquio con Caio all’insaputa di quest’ultimo, non commetterà alcun illecito ma, anzi, il materiale raccolto potrà essere utilizzato.
A tal ultimo proposito, comunque, occorre evidenziare come anche in caso di registrazione lecita, non sempre e comunque il materiale raccolto sia utilizzabile.
Il legislatore nel 2017, infatti, ha introdotto uno specifico reato previsto dall’art. 617 septies del codice penale che punisce sino a quattro anni di reclusione chiunque diffonda tali registrazioni, effettuate di nascosto, se tale diffusione venga effettuata “al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine”.
La diffusione, di contro, sarà lecita nel caso in cui derivi in via diretta ed immediata dall’utilizzazione della registrazione in un procedimento giudiziario o amministrativo o per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca.
Se, di contro, si procede alla registrazione segreta di conversazioni altrui senza essere parte di tali colloqui, allora non solo ciò integra un illecito ma, ancor più, un reato specificatamente previsto dal codice penale che con l’art. 617 punisce sino a quattro anni di reclusione “chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette”.
Il successivo art. 617 bis c.p. punisce, inoltre, con la medesima pena colui che installi strumenti al fine di intercettare comunicazioni o conversazioni tra altre persone.
Fatta tale importante distinzione, occorre precisare come nel caso in cui la registrazione sia effettuata da un privato di sua iniziativa, tale attività non possa essere ricompresa nel concetto di intercettazione in senso tecnico e, dunque, non sia disciplinata dagli artt. 266 ss. del codice di procedura penale che dettano specifici limiti e modalità delle intercettazioni telefoniche.
Ciò in quanto la registrazione di una conversazione, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, costituisce la documentazione fonica di un fatto storico ed è utilizzabile in dibattimento come prova documentale ex art. 234 c.p.p., (con i limiti di cui sopra) mentre la sua trascrizione rappresenta la mera trasposizione in forma grafica del contenuto. (Cassazione penale, sez. V, 29/09/2015, n. 4287).
Questa ipotesi di registrazione «rappresenta una modalità di documentazione dei contenuti della conversazione già nella disponibilità di chi effettua la “documentazione” e potenzialmente riversabili nel processo attraverso la testimonianza» (Cass. Pen., sez. II, 20/03/2015, n. 19158).
Sul punto si erano già pronunciate le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, nella cui motivazione definivano tale attività di registrazione come una «forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa» (Cass. Pen., Sez. un., 28 maggio 2003, n. 36747).
La registrazione effettuata da un interlocutore di sua iniziativa, dunque, esula totalmente dal concetto di “intercettazione” intesa come apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione da parte di soggetti estranei ad essa. In questa ipotesi, infatti, difettano la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione e la terzietà del captante.
Diversa è la posizione della giurisprudenza rispetto alle ipotesi di registrazione effettuate da uno degli interlocutori su richiesta della polizia giudiziaria e con materiale dalla stessa fornita.
Un primo orientamento manteneva fermo il principio secondo cui la disciplina di garanzia prevista per le intercettazioni fosse circoscritta alla sola intromissione esterna e, dunque, continuava a ritenere pienamente utilizzabili dette registrazioni, anche allorché queste fossero indirizzate dalla p.g.: si sosteneva che in tali ipotesi «non si verificasse quella occulta presa di conoscenza di conversazioni che intercorrano tra soggetti indeterminati, oppure tra persone individuate ma del tutto inconsapevoli, che giustifica la rigorosa regolamentazione adottata dal codice di rito a tutela del diritto costituzionalmente garantito della segretezza delle comunicazioni, poiché, invece, uno degli interlocutori non soltanto consente alla captazione, ma la richiede per memorizzare e documentare fatti destinati a costituire oggetto di sue future dichiarazioni agli organi inquirenti o all'autorità giudiziaria» (Cass. Pen., Sez. II, 5 novembre 2002, n. 42486, ; Cass. Pen., Sez. VI, 24 febbraio 2009, n. 16986).
A tale primo orientamento se ne era contrapposto un altro denotato da un ben più rigido formalismo.
Le registrazioni venivano qualificate come “captazioni abusive”, e dunque inutilizzabili, allorché non fossero state autorizzate dal giudice. E ciò in quanto l'apprestamento ad opera della p.g. degli strumenti necessari per procedere alla captazione di conversazioni «in danno del soggetto colloquiante, od anche il mero incarico affidato all'agente», si riteneva realizzasse «un surrettizio aggiramento delle regole che impongono strumenti tipici per degradare la segretezza delle comunicazioni costituzionalmente protetta» (Cass. Pen., Sez. VI, 20 novembre 2000, n. 3846)
Si affermava, infatti, che in questa ipotesi – registrazione su impulso della p.g. – non poteva ritenersi leso il solo diritto alla riservatezza, come si verifica nell'ipotesi in cui il terzo si limiti ad intercettare una conversazione per poi introdurla nel processo, poiché l'intervento della polizia giudiziaria «procedimentalizza in modo atipico l'intercettazione telefonica o ambientale deprivandola del necessario intervento del giudice» (Cass. Pen. Sez. VI, 20 novembre 2000, n. 3846, cit.; Cass. Pen., Sez. VI, 6 novembre 2008, n. 44128).
Vi è poi un indirizzo intermedio ed attualmente dominante, avallato dalle argomentazioni delle Sezioni Unite (Cass. Pen., Sez. un., 28 marzo 2006, n. 26795), secondo il quale per “documento” si deve intendere solo quello formato fuori del procedimento nel quale si chiede o si dispone che esso faccia ingresso e, pertanto, le registrazioni effettuate da uno degli interlocutori su impulso e assistenza della p.g. non possono essere intese come documento acquisibile ex art. 234 c.p.p., bensì devono intendersi come atto d'indagine.
Tale atto d'indagine è però caratterizzato da un minore «grado di intrusione nella sfera privata rispetto alla intercettazione ovvero alla captazione dei colloqui che intercorrono tra persone inconsapevoli».
Alla luce di questa minore lesione del diritto costituzionale alla segretezza delle conversazioni non è richiesto il rispetto della disciplina prevista dal codice di procedura penale per le intercettazioni, bensì è sufficiente un intervento di garanzia minore, che può essere assicurato da un decreto del pubblico ministero.
Tale provvedimento, infatti, rappresenta il livello minimo di garanzie richiamato in varie pronunce della Corte costituzionale (su tutte v. Corte Cost., 7 luglio 1998, sent. n. 281) ed al quale la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento, in mancanza di una specifica normativa, sia in materia di acquisizione dei tabulati contenenti i dati identificativi delle comunicazioni telefoniche, sia in tema di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono.
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